Rimetti a noi i nostri debiti di Antonio Morabito è il primo film italiano ad accedere direttamente su Netflix senza passare per le sale. Il film è disponibile sulla piattaforma online da venerdì 4 maggio.
Parlare di questo film partendo dalla “questione Netflix” sarebbe ingiusto ed ingeneroso. “Rimetti a noi i nostri debiti” è innanzitutto un ottimo film che conferma la bravura di un regista che ha deciso di proseguire l’esplorazione delle perverse logiche dei sistemi economici e commerciali che regolano la vita della gente comune fino a distruggerla.
L’esordio al cinema di Antonio Morabito risale al 2014 quando al Festival del Cinema di Roma aveva presentato “Il venditore di medicine”, che affrontava il delicato tema del comparaggio, la pratica secondo la quale un paziente si trova ad essere cavia involontaria (ma talvolta anche volontaria) di accordi puramente commerciali e speculativi tra medici curanti e grandi aziende farmaceutiche. L’opera di esordio di Morabito aveva subito rivelato la straordinaria capacità dell’autore di coniugare il senso della denuncia civile con l’elegante impostazione formale. La condizione dei deboli (di salute) era apparsa centrale nel racconto del regista toscano, che piuttosto che usare toni da neo-neorealismo aveva scelto come cornice del racconto gli ambienti patinati in cui vivono e operano coloro che di quella sofferenza si nutrono e la accrescono. Il risultato era stato un film che strizzava l’occhio a quel filone del cinema americano molto abile a mettere sotto accusa le lobby di potere.
Con “Rimetti a noi i nostri debiti” Morabito si sporca ancora di più le mani scavando nella profondità di una miseria materiale e morale. Guido (Claudio Santamaria) ha perso l’ennesimo lavoro e per liberarsi di un debito contratto con una banca si propone di lavorare proprio per quell’agenzia di recupero crediti che qualche giorno prima gli ha dato un duro avvertimento. Entra così in contatto con Franco (Marco Giallini), il più esperto e spietato nello svolgere quel ruolo. Sullo sfondo della relazione personale e professionale che si stabilisce tra Franco e Guido c’è una variegata umanità davanti alla quale si rivela la diversa natura dei due uomini. Su tutti spicca la figura del professore (sempre splendido Jerzy Stuhr), un anziano vedovo polacco che attraverso il gioco del biliardo e la teoria dei frattali prova a spiegare all’amico e vicino di casa Guido perchè il sistema economico tende a schiacciare sempre i più deboli. Non meno importante, nel percorso di vita di Guido, è la figura di Rina, l’attraente barista albanese che a disposizione di quell’uomo mette non solo numerosi bicchieri di whisky ma anche saggezza e delicatezza, quella che probabilmente Guido sta rischiando di perdere confondendo l’emulazione di Franco sul lavoro con quella nella vita.
La raffinatezza visiva è evidente sin dall’apertura: il suggestivo scenario del cimitero del Verano a Roma ammantato dalle prime luci dell’alba è teatro della corsetta mattutina di Franco con un’immagine che diventa anche palese metafora del racconto di cui è prologo. Il bar dove lavora (solo per pochi giorni) Rina è fotografato con poche luci ed una dominante verde scuro in un’insolita scenografia che lo fa sembrare un chiosco avvolto nella penombra, ma ha l’atmosfera giusta per accogliere intimità e confidenze; quel quaderno su cui il proprietario Victor ha tracciato il ritratto di tutti i suoi frequentatori è un manuale d’uso che Rina si sforza di seguire per mantenere inalterato proprio quel senso di accoglienza. La scena della partita a biliardino è costruita (come tante altre nel film) in maniera mirabile e restituisce leggerezza a quei due mantelli neri con i quali Franco e Guido si avventano come avvoltoi sui debitori per ridurre a brandelli quel che resta della loro dignità, andando a mortificare ogni sforzo di tenere in piedi la vita e le attività lavorative di quegli uomini e quelle donne.
Franco ha tutto il cinismo delle migliori interpretazioni di Marco Giallini, un attore che riesce a mettere ferocia anche dentro ad una battuta di spirito. In “Rimetti a noi i nostri debiti” il suo esercizio prediletto è quello dell’umiliazione: si allena colpendo bersagli innocenti per poi devastare quelle persone (e le rispettive famiglie) di cui la sua agenzia ha comprato i debiti dalle banche. A Claudio Santamaria tocca invece un ruolo che ricorda molto quello che lui stesso aveva ne “Il venditore di medicine”. Quella di Guido, come quella dell’informatore farmaceutico Bruno, è una vera e propria caduta agli inferi, una repentina perdita di moralità che, fortunatamente, non si completa mai del tutto, mantenendo il personaggio sempre sospeso in una sorta di limbo. Il film, pur nell’assoluta drammaticità dei fatti narrati, non rifiuta i toni della commedia dissacrante e questo è un ulteriore merito di un’opera che non accetta di essere facilmente catalogata. La nutrita partecipazione di attori stranieri, polacchi ed albanesi, è naturale conseguenza delle quote di produzione internazionale, ma serve anche a raccontare meglio la società contemporanea. Forse non è un caso che Morabito (con lo sceneggiatore e produttore Amedeo Pagani) abbia voluto che proprio i loro personaggi fossero portatori dei valori più alti espressi dal racconto.
Tornando alla questione Netflix va detto che essa non può certamente essere liquidata con la battuta pronunciata da Giallini in conferenza stampa: “Tanto ar cinema non ce andate lo stesso, meglio Netflix allora no? Che ce dà una mano e non ci danneggia”. Che questo film non arrivi sul grande schermo e che, probabilmente, non possa essere considerato per la partecipazione ai festival e ai premi istituzionali (potrà concorrere ai David di Donatello?) è un vero peccato, ma come dare torto ai produttori, all’autore e quindi allo stesso Giallini, che avrebbero dovuto accontentarsi di una distribuzione in poche decine di sale e di una manciata di spettatori a fronte della possibilità di essere visti in 190 paesi e con estrema facilità di accesso all’opera? Il dibattito rimane ovviamente aperto, ma anche uno strenuo difensore della sala come me vacilla di fronte a queste ovvie considerazioni. Personalmente avevo molta curiosità di vedere questo film, ma, piuttosto che cercarlo inutilmente nelle ormai blindate programmazioni di cinema e multiplex di provincia, è stato lui a venire da me sin dal primo giorno in cui ne è stata fisata “l’uscita”, abbattendo così anche la distinzione tra il pubblico (privilegiato) di poche città e il pubblico (eternamente penalizzato) di tutto il resto del territorio nazionale. E’ giusto quindi che, anche alla luce di questa “prima volta in Italia”, tutti si impegnino a riconsiderare i meccanismi che regolano la distribuzione/diffusione del cinema di qualità nel nostro paese. Senza dimenticare che al cinema è sempre più bello.
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