Fa certamente riflettere che il Parlamento Europeo abbia deciso di assegnare il Premio Lux 2019 per i diritti umani ad un film che vede protagonista una donna cinquantenne che combatte la sua battaglia in difesa dell’ambiente anche a costo di infrangere le regole e di essere etichettata come ecoterrorista. La donna elettrica è uscito nelle sale italiane il 13 dicembre ma conviene fare ogni sforzo possibile per provare a recuperarlo.
Qualche anno fa, era il 2013, l’Islanda, paese piccolo ma di straordinaria qualità e prolificità cinematografica, aveva candidato agli Oscar un’opera di esordio che in breve tempo era diventata oggetto di culto per quei pochi appassionati cinefili che avevano avuto la fortuna di vederla.
Storie di uomini e di cavalli del regista Benedikt Erlingsson (già affermato regista teatrale ed attore per Lars Von Trier ne Il grande capo) ci aveva suggerito interessanti riflessioni sul rapporto tra uomini, animali e natura attraverso l’utilizzo di un umorismo caustico e l’esplorazione del meraviglioso paesaggio islandese sul cui sfondo aveva mirabilmente intrecciato diversi episodi ed una vasta gamma di emozioni e rappresentazioni di un’umanità dolente, ma mai arresa.
Nel ritrovare Erlingsson al cinema, a distanza di alcuni anni, lo spettatore si rende immediatamente conto di come, con La donna elettrica, egli abbia voluto riprendere e sviluppare quelle tematiche così chiaramente espresse nell’opera di esordio. La messa in scena è però molto più evoluta, Erlingsson abbandona la struttura ad episodi, quasi dei quadri, per concedersi il piacere di dirigere un’opera che si fonda su una scrittura molto articolata e perfettamente congegnata in cui riesce a gestire con disinvoltura i tanti elementi della narrazione. Erlingsson è bravissimo ad alternare i toni del racconto riuscendo a realizzare un film che tiene perfettamente insieme le sue molte anime: la commedia surreale si mescola con l’avventura epica, l’action poliziesco con la favola ecologista, mentre a fare da collante è l’insolito e geniale utilizzo del commento musicale (quasi quasi ci viene da considerarlo persino un po’ musical). Erlingsson trasforma le sonorità in elemento scenico facendo di un trio strumentale islandese e di un coro di tre ragazze ucraine figure che riempiono l’inquadratura pur restando trasparenti agli occhi degli interpreti del racconto.
La donna elettrica si chiama Halla, dirige un coro ed è persona distinta nei modi e nel portamento, ma quando è a casa trova ispirazione per una vita di forte impegno e lotta osservando le disturbanti immagini dei notiziari televisivi che parlano continuamente di catastrofi ambientali. Emblematiche sono le scene che ce la mostrano davanti al televisore mentre compie il suo allenamento quotidiano (la perfetta forma fisica è condizione indispensabile per le sue avventurose imprese) tenendosi alle spalle una parete su cui campeggiano i ritratti di Gandhi e Mandela, che ci appaiono come suoi angeli custodi e modelli di vita.
Nel suo paese ha individuato il nemico dell’ambiente in un’industria siderurgica che sta per diventare di proprietà cinese, garantendo – dicono – investimenti e lavoro. Per frenarne le attività e gli accordi commerciali Halla si rende protagonista di una serie di atti di sabotaggio tanto rudimentali quanto efficaci e di fughe tanto rocambolesche quanto spettacolari lungo le quali trova preziosi alleati e complici proprio nella natura, negli animali ed in un uomo solitario ma generoso. La scena in cui trova salvezza grazie al corpo di una pecora ne ricorda una molto simile del film di esordio in cui a dare salvezza al protagonista era il corpo di un cavallo (scena che ritroviamo anche in “Revenant” di Inarritu).
Halla ha una sorella gemella, Asa, esperta di meditazione e pronta a partire per l’India (ad entrambe presta meravigliosamente il volto la bravissima Halldora Geirhardsottir). Attraverso il loro rapporto Erlingsson ci porta a scoprire il lato tenero di Halla, il suo desiderio di maternità e l’emozione profonda che la assale quando le viene comunicato che potrà adottare una bambina ucraina, a condizione però che nessuna condanna penale penda sul suo capo. Riuscirà la nostra eroina a mantenere immacolata la propria fedina penale? La risposta arriverà in un finale in cui il regista non farà certo mancare la suspance ed i colpi di scena.
De La donna elettrica colpisce anche la straordinaria eleganza visiva che da una parte è agevolata dalla bellezza mozzafiato del paesaggio e dall’altra non può che essere ascritta ad ulteriore merito del regista che, tra le altre cose, sa giocare meravigliosamente con i colori e quando essi non sono dettati dalla natura ne sa scegliere uno attraverso cui definire gli oggetti ed amalgamare i suoi quadri. Tra le scene più belle del film c’è certamente quella del negozio delle vecchie macchine da scrivere che conferisce un’atmosfera un po’ retrò ad un film che guarda alla modernità con evidente preoccupazione.
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