Doppio amore. Due gemelli e un mistero

I film di Francois Ozon possono piacere o no, ma sicuramente non lasciano mai indifferenti e conducono sempre lo spettatore a complesse riflessioni ed indagini sulle pulsioni umane. Il 19 aprile arriva sugli schermi italiani, il suo ultimo lavoro, Doppio Amore, presentato in concorso a Cannes lo scorso anno, e ci sarà di nuovo tanto da discutere.

 

L’uscita in sala di un film di Francois Ozon non è certamente evento raro, visto che ci ha proposto già ben 17 film in meno di 20 anni di carriera, ma rappresenta comunque un avvenimento sempre tanto atteso dai cinefili. Molte cose possono essere scritte sulla sua produzione globale, caratterizzata non solo, come si diceva, da una straordinaria prolificità, ma anche da una capacità di misurarsi con generi e linguaggi diversi: è questo che probabilmente lo ha elevato, pur nella discontinuità dei risultati, al rango di autore coraggioso ed innovativo. Le incursioni nel giallo, nel musical, nel fantasy, nel dramma bellico o in quello in costume, nella commedia sociale sono state caratterizzate da sue personali rivisitazioni che hanno portato ad opere come “Otto donne e un mistero”, “Nella casa”, “Ricky – Una storia d’amore e libertà”, Frantz”, “Angel – La vita, il romanzo” e “Potiche – La bella statuina”, rappresentando tuttavia solo un momentaneo allontanamento da quello che è il filo rosso che unisce larga parte della sua produzione artistica ovvero la morbosità dei sentimenti, ambito nel quale, pur avendoci proposto in questi anni film di discreto valore ed interesse, mai più, a mio avviso, è riuscito a raggiungere quei picchi che segnarono in maniera folgorante il suo percorso all’inizio degli anni duemila con “Sotto la sabbia” e “Swimming pool”, opere impreziosite dalle interpretazioni della magnifica Charlotte Rampling.

“Doppio amore” si colloca senz’altro sulla scia di queste morbosità affettive e si apre, come spesso accade nel cinema di Ozon, nel segno della provocazione con una scena che fa partire l’esplorazione della complessa figura della protagonista dal punto più intimo e profondo del suo corpo con un gioco di immagini che rivela subito come lo sguardo umano tenda sempre a fare della sfera erotica e dell’analisi psicologica un’unica cosa. Le premesse per un film denso di fascino e mistero sembrano esserci tutte nella storia di Chloè, ex modella venticinquenne con una travagliata vicenda familiare alle spalle ed un dolore al ventre (presumibilmente psicosomatico) che non le dà mai tregua. L’incontro con Paul, affascinante psicanalista, segna positivamente la sua vita, sia per i concreti miglioramenti che porta alla sua condizione fisica, sia per l’inatteso innamoramento che ne scaturisce. La scoperta dell’esistenza di un fratello gemello del suo compagno renderà però più lungo e sofferto il percorso di guarigione di Chloè dando luogo a numerosi colpi di scena e capovolgimenti di fronte.

Come il titolo suggerisce, ma più appropriato e sottile sembra essere il titolo originale che parla di “amant double”, è proprio il tema del doppio l’elemento centrale dell’opera, anche se più che all’approfondimento psicanalitico il regista francese si mostra interessato ad un gioco di citazioni che lo mette al riparo da ogni possibile critica per essersi misurato con un cinema che ha già tanti precedenti illustri. La scala che conduce allo studio di Paul non può non aprire una finestra su “Vertigo – La donna che visse due volte” di Alfred Hitchkock (evidentemente il principale ispiratore dell’opera), così come il taglio di capelli, con cui Chloè rivoluziona la sua immagine, richiama subito alla memoria Mia Farrow in “Rosemary’s baby” di Polanski. In molti troveranno anche tracce del cinema di De Palma e di chissà quanti altri autori, ma Ozon si è divertito a pensare anche un po’ a se stesso nel realizzare, con questo film, la trasposizione dell’opera letteraria della statunitense Joyce Carol Oates, “Lives of the twins”. Nella scelta dell’attrice protagonista, la bella Marine Vatch, c’è lo sviluppo narrativo di quel processo di alterazione della percezione di se cui avevamo assistito in una scena chiave di “Giovane e bella”, quando la stessa Vatch (nei pani di Isabelle) si osservava dall’esterno mentre sulla spiaggia di sera perdeva la verginità con un fidanzatino tedesco.

La psicologia spiega che il bisogno di esprimere l’altra parte di sé può tradursi nella genesi di un gemello immaginario, quello che consente di trasformare in desiderio le paure più profonde. Dal punto di vista estetico e scenico tutto ciò trova, classicamente, espressione in un continuo gioco di specchi, quelli che abbondano nelle inquadrature di Ozon e che diventano nelle fasi finali estrinsecazione del bisogno stesso di Chloè di liberarsi di ogni ingombrante riflesso immaginario. La costruzione scenografica asseconda perfettamente gli intenti dell’autore: gli ambienti sono eleganti e disegnano il ritratto di una borghesia insoddisfatta e frigida che ambisce a risollevarsi dal ripiegamento su se stessa. Gli splendidi arredi degli studi psicanalitici e l’installazione lignea che domina l’area museale dove Chloè lavora come sorvegliante sono la bella copertina di un mondo che trova però nelle molteplici figure feline i suoi aspetti più simbolici e rivelatori.

A tante belle suggestioni non corrisponde però la necessaria piacevolezza nel seguire gli sviluppi della storia. Le atmosfere thriller restano un po’ imbrigliate in quell’alternanza tra racconto reale e visione onirica che, seppur proposta con un amalgama che consente di mantenere la giusta dose di mistero, crea una frattura empatica tra l’opera e lo spettatore che avverte chiaramente di essere al centro di una manipolazione. Il discorso sulla sessualità è troppo insistito e finisce con lo  stereotipare e il banalizzare quello che dovrebbe diventare il personaggio chiave del film. Anche la recitazione è un tantino monocorde e qualche personaggio secondario (penso soprattutto alla vicina di casa) sembra rimanere irrisolto facendosi portatore di inquietudini mai completamente svelate.

Protagonista maschile di “Doppio amore” è Jeremie Renier, che con Ozon aveva già lavorato in “Potiche – La bella statuina”, ma la cui carriera è strettamente legata ai fratelli Dardenne con i quali aveva debuttato, ancora ragazzino, ne “La promesse” e realizzato molti film anche in seguito. Jacquelin Bisset compare invece brevemente nelle fasi finali del film nei panni della madre di Chloè.

Cosa dire infine? Bravo Ozon, ancora una volta ci hai sedotti (e forse un po’ abbandonati), ma la prossima volta ricorda: il doppio stroppia!

///il trailer///

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