Like Father, Like Son

Quando, nello scorso mese di maggio, “La grande bellezza” non riuscì a ottenere al festival di Cannes il trionfo che poi ha ottenuto mesi dopo agli Oscar, la delusione nei fan di Sorrentino e in generale negli italiani fu parzialmente temprata da un’analisi lucida dei film rivali di Paolo nella sontuosa gara sulla Croisette.
Eh, “La vie d’Adele” in effetti era anche quello un film da Palma d’oro”- si è sentito dire. Tutto vero. Ma c’è dell’altro. Si tratta del film che ha battuto “The great beauty”, aggiudicandosi il premio della giuria. E’ “Father and son” di Kore-Eda Hirokazu. Un capolavoro, un film memorabile.

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Chi vi scrive lo ha visto in Belgio, in lingua originale con sottotitoli in francese. Impresa non da poco, lasciatemelo dire, visto l’inevitabile gap linguistico che ha reso non pochi passaggi di quest’opera difficilmente comprensibili. Eppure, ecco dove questo film rivela la sua grandezza. E’ un film che rimanda all’ancestrale linguaggio del cinema, quel luogo dove il mezzo espressivo sono immagini e montaggio, e di per sè costituiscono gli elementi di base per il racconto di una storia.

E in “Father and son”, la trama è semplice. Uno scambio di persona.
Una agiata e borghese famiglia nipponica, quella di Nonomya Ryota, architetto di successo, vede il proprio bambino di sei anni, Keita, essere scambiato con un altro bimbo, figlio di un’altra coppia che vive in ben altre condizioni economiche. I due bambini furono scambiati alla nascita per un errore del personale del reparto di neonatologia, e questo è il punto di partenza del racconto. Un racconto che dunque esplora tematiche per un verso care al cinema (lo scambio di persona come motore di una storia, pensiamo a “Intrigo Internazionale” di Sua Maestà Hitchcock), e per un altro verso estremamente interessanti per la società giapponese (una società ancora radicalmente patriarcale, dove è l’uomo chiamato a prendere le decisioni di importanza), e parimenti universali. Cosa può essere la familiarità? Come può crescere un amore per un essere umano con cui si crede di avere un indissolubile legame biologico ma che in realtà appartiene ad un altro mondo, dal punto di vista “sanguigno”, sociale e familiare? In quali inattesi modi, infine e in fondo, può essere declinato l’amore?

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L’obiettivo che Hirokazu si pone è dunque alto, altissimo. Il risultato, superbo. Il racconto cinematografico poggia su un equilibrio perfetto tra sincerità dello sguardo e levità dell’uso del mezzo (in tal senso il regista pare aver imparato la lezione di Ozu o, per andare a tempi più moderni, di un altro gigante che in Giappone ha ambientato con “Letters from Iwo Jima” uno dei suoi capolavori, Clint Eastwood). Hirokazu lo guida con mano sicura, dosando con delicata parsimonia i tempi della sua macchina da presa a indugiare sugli straordinari volti di questo dramma, che mai sfocia nel melodramma, mai cade nella prevedibilità retorica, mai eccede nel mostrare un secondo di più un frame che già ha in sé tutto, custodito dalla asciutta forza di quel che ha da dire, e dall’elevato mestiere di attore di chi lo interpreta. E in quelle immagini salvate sulla fotocamera digitale e scoperte da Nonomya, quando il protagonista scopre che il senso della sua paternità risiede anche nella “speculare” visione che il bambino ha di lui, e non solo e soltanto nei propri sicuri e rigidi codici di comportamento figli della tradizione patriarcale, c’è una riflessione altamente raffinata del regista sul cinema, sulla forza dell’immagine e sul bisogno di restare innocenti e vedere la realtà con gli occhi di un bambino. Anche la musica scelta da Hirokazu lavora in questa direzione, il raccontare il tutto che si può raccontando quasi nulla, sottraendo al commento sonoro della scena ciò che possa essere superfluo, ed anzi arricchendo il risultato finale con rarefatte note di pianoforte dolenti ed evocative.

Meno chiacchierato di “La vie d’Adele”, meno discusso di “La grande bellezza” (e meno male, altrove non sono forse schizofrenici come noi italiani), questo film trascorre lento come l’inverno, e sboccia inesorabilmente come la primavera, in tutta la sua soave grandezza. Non perdetelo.

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